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RITORNO
A CASA
Erano passati dieci
anni dall'ultima volta che era stato in Italia, la sua terra
d'origine. Il suo lavoro di giornalista lo aveva portato in giro per
il mondo, aveva assistito alla nascita di regimi e alla caduta degli
stessi, guerre fra nazioni, clan o famiglie. Lotte di popoli oppressi
e feriti dai loro governanti.
I suoi articoli
erano richiesti dalle più grandi testate mondiali, perché Stefano
Cardini era sempre al posto giusto nel momento giusto. Anche in quel
lontano giorno del 1973 era nel posto in cui si sarebbe fatta la
storia, la centrale di Teleforce che Salazar aveva costruito alla
periferia di Osaka.
Si trovava in
Giappone in vacanza, ma la notizia dell'attivazione della centrale
non poteva essere ignorata, quindi si fece accreditare l'ingresso da
un suo amico ai piani alti della Asahi Corporation, uno dei grossi
network televisivi di Tokyo. Come sempre era al posto giusto al
momento giusto, ma avrebbe voluto perdere il treno che lo portò fin
lì.
Dopo trent'anni
passati a fuggire si era stancato. Voleva tornare a casa, incontrare
le persone a lui care. Ormai era da diversi mesi che nessuno ai piani
alti del potere cercava di contattarlo.
«Ehi, il parco sta
chiudendo!» La voce arrivava dal sentiero lungo il lago artificiale.
Un poliziotto. Parlò nella ricetrasmittente posta sulla spalla
sinistra, riferiva al suo collega all'ingresso del parco che c'era un
altro perdigiorno, poi si diresse verso di lui. Perso nei suoi
ricordi, Stefano non si era reso conto dell'orario.
«Ancora cinque
minuti agente, poi me ne vado a casa.»
«Forza, si diriga
all'uscita.»
«Ancora cinque
minuti e tolgo il disturbo.» Il sole era quasi tramontato e le luci
dei lampioni iniziavano a fare il loro dovere.
«Forza,
odio che non mi si ascolti. Venga con me, l'accompagno all'ingresso.»
Tese il braccio per prendere Stefano per la spalla destra, ma questi
si alzò di scatto, allontanandosi di un paio di metri.
«Le ho chiesto solo
cinque minuti. Non mi sembra di aver fatto una richiesta
impossibile. Voglio solo starmene un po' in pace.»
«Per carità,
magari gradirebbe anche una birra e qualche stuzzichino. Il parco
deve essere chiuso alle sette e mezza, ovvero tre minuti fa. Quindi
ora si muova ed esca.»
«Sa una cosa, da
piccolo venivo spesso in questo parco a giocare. C'era un gioco che
facevamo, non so come si chiamasse o se avesse un nome...»
«O Cristo, ma tutti
a me devono capitare gli sbandati.»
« In questo gioco
vinceva chi riusciva a calpestare per primo l'ombra dell'avversario.
Io ero un campione, c'erano solo un paio di ragazzi che riuscivano a
mettermi in difficoltà, ma alla fine ero sempre io a vincere. »
«Basta, zitto e
girati! Mani dietro la schiena! Ehi Ale,» l'agente parlò nella
ricetrasmittente, «il perdigiorno viene a farsi un giro nella nostra
macchina.»
«Ricevuto, chiudo
qui e vengo a prendervi all'ingresso sud» fu la risposta del
collega.
«Nel momento in cui
schiacci l'ombra,» continuò incurante Stefano, «la persona colpita
deve bloccarsi sul posto nella posizione in cui si trova.»
«OK. Bel giochetto»
disse il poliziotto. «Muoviti, abbiamo un appuntamento.» Estrasse
le manette tenendo costantemente sottocchio Stefano, che si mise a
camminare, con passi lenti e brevi, per poi accelerare, fare un salto
e ricadere sull'ombra dell'agente.
«Le avevo chiesto
solo cinque minuti, ma a quanto pare la gentilezza non fa parte del
suo corredo genetico. Bene, me ne torno a casa, lei invece resterà
qui finché il suo collega non verrà a cercarla.» Si mise una mano
in tasca e ne estrasse qualcosa. «Vediamo quanto impiegherà il suo
amico a capire cosa deve fare. Questo trucco l'ho appreso circa
trentanni fa, in Giappone» Si chinò, conficcando nel terreno
colpito dall'ombra del poliziotto un chiodo. «Ora resterà bloccato
fino a che qualcuno non lo toglierà. Ci vediamo.»
Il poliziotto vide
Stefano dirigersi verso l'ingresso nord, mentre dalla trasmittente il
suo collega cercava di comunicare con lui. Passarono pochi minuti
prima che un uomo, vestito con un completo grigio che mal celava la
fondina della pistola sotto l'ascella, arrivasse dove l'agente era
bloccato nell'atto di mettere le manette a qualcuno.
«Ehi
ti sei fatto fregare da quel super?»
disse
l'uomo in grigio. Diede una pacca sulla spalla al poliziotto e inizio
a cercare per terra, appena vide il chiodo lo tirò fuori dal terreno
e si portò sotto un vicino lampione per osservarlo meglio.
«Bah, sembra un
normale chiodo. Non sento residui di teleforce. Come ha fatto a
bloccarti?» disse girandosi verso il poliziotto.
«Chi lo capisce è
bravo», l'agente si sedette sulla panchina. « Appena mi ha
calpestato l'ombra mi son bloccato, eppure quando mi sono avvicinato
davo le spalle al sole, e il suo piede era venuto a contatto con la
mia ombra.»
«Quindi non è un
potere passivo, deve essere attivato per funzionare.» L'uomo in
grigio continuava a fissare il chiodo.
«Dopo di che ti ha
infilzato con questo, giusto?»
«Esatto, a quel
punto ero completamente inerme, ha conficcato il chiodo nell'ombra e
se né andato, come se niente fosse.» Si girò a guardare verso
l'uscita nord del parco. «Prima di bloccarmi mi ha raccontato una
storia, sulla sua infanzia.»
«Che storia, Gio?»
«Di un gioco, che
faceva da bambino, in cui vinceva chi schiacciava per primo l'ombra
all'avversario. Cazzate, Ste.»
«Che simpatico, ti
ha raccontato come funziona il suo potere. Peccato che questo già la
sappiamo.» Si mise il chiodo in tasca. «Andiamo dai, ti offro una
birra.»
"E come la
mettiamo con quel super?"
"Non
preoccuparti." Diede due colpetti alla tasca."Ci ha
lasciato un biglietto da visita."
Era
atterrato da poche ore e stava soffrendo ancora per il jet-lag,
l'unica cosa che voleva fare, oltre a una bella cena al ristornate Da
Guido,
era di farsi una camminata nel vecchio parco delle cave. Ma un
poliziotto troppo solerte aveva bloccato il suo sogno.
Sul
tragitto per il ristorante continuava a ripensare all'incontro
avvenuto poche ore prima. Qualcosa stonava, forse era solo una sua
paranoia, ma ultimamente aveva la sensazione di essere sempre
inseguito e quel poliziotto lo aveva reso ulteriormente nervoso.
Da
quando la teleforce lo aveva reso un super è stato difficile per
Stefano tenere un basso profilo. Riusciva bene nel suo lavoro perché
nessuno sapeva che faccia avesse, e per un giornalista che operava da
solo in zone di guerra l'anonimato faceva comodo. Ora invece volto e
nome di Cardini erano finiti più volte sui giornali, come parte
delle varie notizie che quotidianamente interessava i 160 super nati
per mano di Salazar. In conclusione, era bruciato.
Basta indagini su regimi e governi, aveva il passaporto segnalato
sulla lista nera di molti paesi e in quelli in cui poteva ancora
entrare veniva 'scortato' per tutto il tempo della visita.
Finalmente
arrivò al ristorante, parcheggiò l'Audi Q5 presa a noleggio sul
retro del locale, dove agli odori provenienti dalla cucina si
mischiavano il puzzo di piscio e di
immondizia
dai vicini cassonetti. Accese una sigaretta, era in anticipo di un
quarto d'ora sulla prenotazione.
Estrasse
il telefono e inizio a scorrere i nomi nella rubrica.
Fece
un lungo tiro alla sigaretta,
si appoggiò al muro del ristorante e premette il tasto
“chiamata”,
portandosi poi senza fretta il telefono all'orecchio. Dopo pochi
squilli, la voce della segreteria telefonica gli rispose.
«Ciao Marco, sempre
io, Ste. Va beh. Sono tornato, fatti sentire. Il numero è sempre lo
stesso. Beh. Ciao.»
Chiusa la
conversazione diede l'ultimo tiro alla sigaretta, per poi buttarla in
una grata. Si avviò all'entrata del ristorante, dando rapide
occhiate all'interno della sala attraverso le grosse vetrate che
coprivano quasi tutta la parete sud del locale. Per essere sabato
sera, il locale era quasi vuoto.
Appena aperta la
porta fu accolto dal profumo di carne cotta alla brace e dal vociare
dei clienti. Un paio di tavoli con delle coppiette, una tavolata che
aveva tutta l'aria di ospitare una cena aziendale e un'altra piena di
ragazzini poco più che maggiorenni, che sembrava avessero scambiato
il vino per acqua. Sarà che era rimasto molto tempo all'estero, ma
se lo ricordava più serio e ricercato quel locale. Passarono un paio
di minuti prima che un cameriere si interessasse a lui.
«Buonasera signore,
ha una prenotazione?»
«Si a nome Cardini.
Se possibile gradirei un tavolo d'angolo.» rispose Stefano.
«Vediamo
un po',» il cameriere diede un occhiata al monitor posto vicino alla
cassa, «sì,
prego mi segua.»
Prese
due menu dal banco e accompagnò Stefano al suo tavolo, dall'altra
parte del locale, vicino alla tavolata della cena aziendale.
«Prego, signor
Cardini,» disse il cameriere spostando la sedia, «gradisce un
aperitivo prima della cena.»
«Si grazie, un
Martini. Liscio.»
«Subito.» Si
diresse verso il bancone del bar, dove passò l'ordinazione al
barista.
Stefano si mise a
osservare le persone nella sala, niente di speciale, gente normale
che si divertiva e passava una serata spensierata. Per fortuna la
gente comune difficilmente lo riconosceva, il suo volto era famoso ai
piani alti, nei posti in cui era necessario sapere tutto di tutti. Ma
li, in quel paesino del nord Italia, il nome Stefano Cardini era un
nome come un altro, e questo gli consentiva cene tranquille, serate
al cinema e spese al supermercato sotto casa.
Un cameriere si
avvicinò al bar e mise il suo aperitivo su un vassoio, per poi
dirigersi da lui.
«Ecco il suo
Martini signore,» posò il bicchiere sul tavolo, «spero sia di suo
gradimento.»
Stefano allungò la
mano per prendere il bicchiere, ma si bloccò di colpo appena vide
l'oliva infilzata con un chiodo cromato.
Si girò di scatto,
ma il cameriere lo strinse alla gola con una mano spingendolo con
forza contro il muro, ribaltando sedie e tavolo, mentre con l'altra
mano estrasse una pistola.
Calò il silenzio
nella sala, almeno fino a che:
«Ha una pistola!»
gridarono quasi in contemporanea alcune persone. Fu il caos, gli
avventori si misero a correre verso l'uscita, mentre i camerieri
corsero a nascondersi dietro il bancone del bar piuttosto che in
cucina.
«Lasciami» disse
Stefano.
«Ma certo, quando
ti consegnerò al mio capo» rispose l'aggressore. «Non vuoi sapere
chi sono?»
«Non me ne frega un
cazzo. L'importante è che chi muore sappia chi lo ha ucciso. E tu il
mio nome già lo sai.»
«Con chi pensi di
avere a che fare. Conosco il tuo potere, e mi spiace per te, ma
l'ombra è alle mie spalle. Difficile da toccare.»
«Non sai nulla.»
La frase usci debolmente dalla bocca di Stefano. «Mai giocato alle
ombre cinesi? É incredibile quante cose si possano fare
semplicemente con un'ombra. Vedi?» Mosse il braccio destro,
proiettando un'ombra grazie alla lampada posta di fianco a lui.
«Che stai dicendo?»
L'aggressore guardò per terra, cercando di capire cosa Cardini
avesse in mente. «Cosa vuoi fare? L'ombra cinese del tuo braccio?
Non mi sembra ci voglia sta grande abilità. Ah ah ah.» Aumentò la
stretta al collo.
«Mpf...mi
sa...mpf...che non hai vis..to...bene.»
L'uomo girò lo
sguardo. L'ombra era cambiata, ora la silhouette sembrava...
Cardini mosse il
braccio. L'aggressore provò un dolore lancinante, come se qualcuno
lo avesse colpito in pieno stomaco con un coltello. Lasciò la presa
al collo, portando istintivamente le mani al corpo, controllando che
non stesse sanguinando. Nulla, ma il dolore era atroce e inizio ad
avere la vista appannata.
«Non sono uno che
uccide,» disse Cardini, «ma smettete di rompermi i coglioni, o
potrei cambiare idea. Ci vediamo.»
Stefano vide uno dei
camerieri al telefono. Probabilmente stava chiamando la polizia.
«Che palle, ma
possibile che uno non possa cenare in santa pace.» Si girò verso
l'uomo a terra. «Se riesci a cavartela, fai mettere anche questo nel
mio dossier.»
Si portò le mani
aperte ai lati della faccia. «Come con i bambini, che fanno i giochi
più belli e semplici di tutti. Cu-cù.» Si copri la faccia con le
mani.
E sparì.
Due uomini, in
completo grigio, stavano guardando dentro la macchina di Cardini
mentre la gente fuggiva dal ristorante.
«Non vedo nulla di
interessante sui sedili. Apriamola, prima che arrivi la polizia.»
«Nessun problema,
spostati Ale. » Il più alto dei due si avvicinò al cofano dell'
Audi e vi appoggiò il palmo della mano destra.
« Ciao piccola, che
ne dici, mi fai entrare.» Le sicure scattarono, e il lampeggiare
delle freccie indicò che l'allarme era stato tolto. «Grazie, sei un
tesoro. »
«C'è bisogno di
far certe scene ogni volta? Eh, Giova?»
«Eddai, ci vuole
delicatezza lo sai. Se no non funziona.» Si spostò verso il
portello del guidatore e lo aprì. «Prego, è il suo turno señor
Alejandro Vargas Lopez » disse spostandosi di lato con un inchino.
«Coño...lo sai che
non dobbiamo far sapere i nostri nomi »
«Di cosa ti
preoccupi, siamo solo noi due. Ora muoviti, cerca indizi su Cardini.»
«Ehi voi due, la
macchina è a noleggio, quindi occhio a non danneggiarla.» I due si
girarono di scatto, pistole in pugno.
Si trovarono di
fronte un ragazzo, di circa vent'anni, i capelli spettinati di uno
sgargiante color arancio, portava dei jeans calati sui fianchi, tanto
da far vedere buona parte dei boxer sottostanti, e una camicia a
righe con le maniche arrotolate sopra i gomiti. Li stava filmando con
un i-phone.
«Ragazzo non sono
affari tuoi,»disse Alejandro,«ora fai il bravo, e dammi quel
telefonino.» Si mosse verso il nuovo venuto, tenendolo sotto tiro e
facendo cenno con la mano sinistra di dargli il telefono.
«Aspetta Ale,»
intervenno Giò, «prima voglio sapere chi è, e come fa a sapere che
la macchina è a noleggio.»
Il ragazzo fermò la
registrazione e si mise in tasca l'i-phone.
«Allora, punto
primo, non mi piace avere delle pistole puntate addosso. Punto
secondo, anche un cieco vedrebbe il simbolo dell'autonoleggio sul
finestrino posteriore. E terzo, non vedo perché dovrei dire a dei
'Men in Black' di serie b chi cazzo sono.»
«Ehi coglioncello,
con chi credi di avere a che fare?» rispose Alejandro. «Forza
Giova, facciamolo fuori.»
«Chi vorreste
uccidere?» Stefano comparve dal nulla vicino al retro della
macchina. «Ma tu non sei quel poliziotto noioso del parco? » disse
indicando Gio.
I due uomini in
grigio si girarono verso la nuova minaccia, e appena riconobbero
Stefano gli puntarono le pistole contro.
«Signor Cardini, a
quanto pare il nostro segugio non è riuscito a catturarla. » Mentre
parlava, Alejandro si mise a fianco del suo collega. «Cercherò di
essere chiaro, abbiamo l'ordine di prendervi vivo, ma questo non ci
vieta di farle qualche buco nel corpo. Quindi niente scherzi, bocca
chiusa e ci segua senza creare problemi.»
«Cavoli Ste, se
sapevo di trovarti in mezzo a tali casini non sarei mai passato a
salutarti.»
Come presi alla
sprovvista, i due si girarono verso il ragazzo dai capelli arancioni.
«E questo chi cazzo
è? Da dove esce?» gridò Alejandro. «Tienilo sotto tiro Giovanni,
se si muove spara, le domande a dopo.» Quindi si rigirò verso
Stefano, senza staccargli la pistola di dosso.
«Bene Ale, adesso
che si fa?»
«Che domande, io lo
controllo e tu ti avvicini e gli metti i lacci alle mani. Come
sempre.»
«E chi controlla il
ragazzo?»
«Quale ragazzo?»
«Mi prendi per il
culo? Guarda che non mi sto divertendo!»
«Senti non abbiamo
tempo. Le senti le sirene, fra meno di un minuto la polizia arriva
qui, e non mi va di farmi beccare. Prendi i lacci e blocca Cardini.»
Giovanni si girò,
tenendo sempre l'arma rivolta contro il ragazzo, per guardare il suo
collega.
«Senti Ale, non
credo che... »
« Non credi cosa? »
« Non..non lo so.
Passami i lacci, i miei sono in macchina.»
Alejandro si voltò
verso il collega, lo sguardo di chi non crede a quello che sente.
« Ma è
possibile...Ehi! E quello chi cazzo è? » disse indicando con la
mano libera.
« Quello chi? »
Giovanni si voltò, e vide il ragazzo. «Fermo lì! Chi sei? » Puntò
la pistola verso il giovane.
Due macchine della
polizia arrivarono al ristorante, mentre due poliziotti entrarono nel
locale, altri due si diressero verso il retro, in direzione di
Stefano e degli altri tre.
«Merda. Filiamo
Ale, se ci trovano è un casino.» Si voltò verso Cardini. « Ci si
vede, mister. Non lasci la città.»
Gli uomini in grigio
si misero a correre, per poi scomparire in una via laterale. Pochi
secondi e sopraggiunsero i poliziotti.
«Lì, voi due,
avete...Ispettore Fermi, come mai qui?» chiese uno dei due rivolto
al ragazzo
«Buonasera agente.
Ero in zona, avevo un appuntamento con questo mio amico,» disse
indicando Stefano, «ma prima del mio arrivo quel tizio lo aveva
aggredito nel locale. Ora stavo raccogliendo una sua deposizione
sull'accaduto.»
«Bene ispettore,
allora noi torniamo alla centrale, se tutto è a posto.»
«Ma certo agente.
Rientrate pure. Buona serata.» e li congedò con un saluto
distratto.
Quando i due
poliziotti si furono allontanati, Stefano si avvicinò al ragazzo.
«Quindi Marco ora
sei ispettore. E usi il cognome di tua madre. Come mai?»
«Perché sotto
sotto, tu mi stai sul cazzo papà.»
Interessante. Spero di leggere presto il seguito. hai già un'idea di quante puntate saranno?
RispondiEliminaIl Moro
Contento che sia piaciuto :)
EliminaNon ho idea di quante puntate saranno, perché il fatto che Marco sia entrato in polizia mi ha spiazzato, dovrò cambiare un po' la trama :)
Stupirsi delle storie che tu stesso scrivi non ha prezzo... :-)
EliminaEheh complimenti, molto interessante :) Io aspetto il seguito! Sono molto curioso di scoprire di più di questi (due?) super :)
RispondiEliminaUe Socio, li inseriamo nel database dei super che stai creando, eh? Altrimenti qui mi perdo. Stefano e Marco Cardini, dai! E ci inserirei pure i miei super, altrimenti mi perdo.
RispondiEliminaRitmo veloce e snello, frase chiave: "Muoviti, abbiamo un appuntamento".
Uno dei superpoteri più interessanti tra quelli fino ad ora inventati. C'è voluta un bel po' di fantasia per avere quest'idea ne?
Come ti dicevo, il personaggio chiave è Marco. Non ha sulle spalle il peso d'essere il protagonista come Stefano.
I poliziotti appaiono un po' troppo rapidamente a livello di ritmo.
Ue vai avanti su!
Un crossover con Rainman o col Batman di San Diego?